SALERNO - È un’icona nel deserto d’una città chiusa in casa. Sopravvive, immutabile, al tempo che passa, alle generazioni che avanzano, alle mode che cambiano, persino al virus che ha svuotato le strade e però non la memoria. Salerno, piazza Renato Casalbore, stadio Donato Vestuti. In così tanto mondo c’è solo un posto in cui Carmine Rinaldi possa tornare. Non lui, ovviamente, ch’è morto dieci anni fa, però i simboli che lo rappresentavano, quelli sì. Rispuntano e rivivono, come il ricordo del « capo degli ultrà », al secolo e per tutti “il Siberiano”, che oggi nel 2010 si spegneva a Mercatello, di fronte al mare, mentre montava cabine con la stessa forza con cui rullava il tamburo della sua Curva, della sua gente, della sua vita.
Rieccole, allora, la folgore e la stella, che brillano a metà dello striscione “Carmine in eterno” con Braccio di Ferro sul primo bordo a mostrare i muscoli, e quelle tre lettere, GSF, l’acronimo di Granata South Force, il suo gruppo, in mezzo a due tricolori, riproduzione fedele d’uno dei vessilli più preziosi della storia del tifo della Salernitana. Già, riproduzione. Perché lo striscione vero, « il GSF bianco », è finito sotto terra, assieme al “Siberiano”.
Lo avvolge da un decennio, dopo quel funerale improvvisato sotto la Sud del vecchio Vestuti, alle due e mezzo d’un pomeriggio di tempesta in cui scrutando quei 2mila volti, tra gradoni e pista d’atletica, facevi fatica a distinguere lacrime e pioggia. Da allora, Carmine Rinaldi è diventato il leader senza tempo d’una tifoseria che non è mai stata la “famiglia mulino bianco”, perché al suo interno esistono, da sempre, da oltre quarant’anni, discussioni e tensioni sul filo d’equilibri a volte sottili, però che ha saputo trovare nell’immagine di quell’omone, e in ciò che ha davvero rappresentato, la stella polare per sentirsi unita nell’amore per la Salernitana.
Sì, perché “il Siberiano” era anzitutto un innamorato della maglia granata. Pronto a tutto per difenderla. Carismatico e istintivo, trascinatore e con un’enorme capacità d’aggregare, nel 1982, da 18enne, fece dei suoi Ultras, gruppetto d’una ventina d’amici, una delle cinque punte della stella della Granata South Force, assieme a Warriors, Fedayn, Fighters e, soprattutto, ai Panthers, dalla cui storia la GSF avrebbe poi ereditato l’anno di nascita ’77.
Nacque tutto lì. Le prime riunioni, i primi segnali d’un ragazzo con le stimmate del leader , capace presto di farsi conoscere ben oltre i confini cittadini. Lo faceva con la corrispondenza - ché all’epoca non c’erano social né telefoni cellulari senza disdegnare di partire, anche da solo, con la sua moto, per cementare di persona amicizie o conoscenze con altre tifoserie d’Italia. «Io il braccio e lui la mente», diceva dell’inseparabile Ciccio
Rocco che nella seconda metà degli anni Ottanta raccolse il megafono da Andrea Criscuolo .
“Il Siberiano” no, non ha mai lanciato cori ma è stato tamburo e anima d’una Curva che caricava anche solo con lo sguardo. Al movimento ultras di quegli anni diede un taglio “popolare”, meno elitario e più inclusivo, mettendo sempre davanti a tutto, in ogni rapporto, l’umiltà e l’umanità che chiunque l’abbia vissuto e conosciuto racconta.
Fonte di sicurezza per gli altri, presenza fissa se c’era da agire, è stato accanto o avanti ai suoi amici in ogni situazione, mai un passo indietro, continuando ad amare la maglia granata, anche quando smise d’essere una figura apicale “militante” dei South Force e però non di seguire e sostenere la sua Salernitana in quella Curva Sud dell’Arechi che non a caso oggi porta il suo nome. Nuova Guardia, Nucleo Storico, Igus, Frangia Kaotika e Prigionieri di una fede oggi avrebbero voluto apporre una targa commemorativa, sull’uscio del Vestuti, ma gli assembramenti sono vietati e lo faranno appena possibile, dopo aver fatto del suo volto il simbolo d’uno striscione unico, “Salerno”, che lascia Carmine in ogni trasferta dov’era sempre stato, pure con la folgore e la stella al collo, un passo avanti a tutto il suo popolo.
Amico e leader , compagno e papà, mito nel tifo e umanissimo nelle difficoltà attraversate in una vita a un certo punto molto complicata, in un’epoca che divora tutto ha avuto la forza, dopo quel maledetto 12 aprile 2010, di sopravvivere e farsi conoscere da generazioni d’appassionati di calcio e del mondo ultras che in ogni dove sanno del “Siberiano”.
Più forte d’un tempo senza memoria, più forte persino di questa Pasqua di deserto e silenzio che reclama coraggio e riscatto. Cosa non darebbe, Salerno, per (ri)sentire un suo assolo di tamburo...
fonte: lacittadisalerno.it
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