Dal marzo del 2007 è vietato introdurre
drappi negli stadi senza l’autorizzazione della Questura. Una misura
contestata dal mondo delle curve perché danneggia la cultura popolare
del tifo. Domenica i gruppi della gradinata sud della Sampdoria hanno
organizzato un corteo in nome della libertà di pensiero.
.
Domenica, a Genova, la partita dei tifosi
sampdoriani è iniziata ben prima delle 15. Si sono radunati alle 12.30
davanti alla stazione di Brignole e da lì sono partiti in corteo fino
allo stadio Luigi Ferraris. C’erano tutte le componenti della tifoseria
blucerchiata: tutti i gruppi ultras della gradinata sud, Federclub,
anziani, giovani, donne e bambini. In tutto 2500 persone (300 secondo la
Questura) che, con cori, fumogeni, megafoni e striscioni hanno
attraversato le strade del capoluogo ligure per chiedere di poter
appendere il loro nome negli stadi: «Rivogliamo i nostri striscioni». Un
problema, quello del divieto di accesso negli stadi di striscioni senza
previa autorizzazione, che tocca tutti i tifosi italiani. Di qualunque
fede calcistica. Dal più sfegatato che urla in gradinata al più pacato
che segue la partita seduto nei distinti. «Questo divieto è inspiegabile
– afferma Carlo, vecchio ultras doriano – si richiede un’autorizzazione
per far entrare gli striscioni quando è sempre successo che la domenica
mattina la polizia controllava tutti gli striscioni che venivano
portati dentro lo stadio e sequestrava quelli ritenuti violenti od
offensivi». Che poi la polizia non facesse bene il suo lavoro, facendo
entrare svastiche e celtiche, è un altro discorso. I tifosi la vedono
come una limitazione del loro diritto di esprimersi, ed è anche per
questo che in mezzo al corteo di domenica capeggiavano degli stendardi
con l’articolo 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di
manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e
ogni altro mezzo di diffusione». L’anno scorso uno striscione con queste
parole del gruppo Ultras Tito Cucchiaroni fu bloccato all’ingresso dello stadio: non era stato chiesto il permesso.
Una limitazione assurda che, emanata dall’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive sull’onda emotiva della morte dell’ispettore Raciti, non ha altro effetto che minare la cultura popolare del tifo. Niente più tamburi, fumogeni, megafoni, striscioni, niente più coreografie se non preventivamente approvate. Tutti seduti a mangiare pop corn e vedere le ragazze pon pon che fanno i loro stacchetti, un po’ come avviene in America. E’ questo quello che temono i tifosi. Non solo gli ultras, come si cerca di far credere. «Oggi c’erano anche anziani e federclub in corteo – continua Carlo – non solo noi ultras, brutti, sporchi e cattivi. E’ un problema sentito da tutti, perché sono divieti assolutamente incomprensibili, che non mirano a limitare la violenza, obiettivo che personalmente condivido in pieno, ma a disgregare i gruppi di tifosi, annientando il loro modo di essere e il loro modo di tifare». Viene spontaneo chiedersi allora perché fare un corteo a distanza di più di un anno dall’emanazione di questa delibera del marzo 2007: «parlo a titolo personale – prosegue Carlo – ma credo che sia dovuto al fatto che pur avendo portato avanti con coerenza questa battaglia per una anno, non esponendo striscioni, rimanendo fuori dallo stadio per protesta e via dicendo, ci si è resi conto che ormai, a livello di tifoserie, si è rimasti quasi da soli a combattere questa battaglia. Per cui bisognava alzare la testa e un corteo colorato e partecipato è il modo migliore per farlo».
Sul rifiuto delle più anti-democratiche tra le norme anti-violenza, il fronte delle tifoserie italiane ha ceduto già da tempo. Si contano sulle dita di una mano quelle che si ostinano a non portare all’interno degli stadi i loro striscioni. Quasi tutte sono scese a compromessi con l’Osservatorio, presentando regolari richieste d’autorizzazione per far entrare i loro drappi. Da Firenze a Milano, da Torino a Roma, sono sempre di più gli striscioni che vengono esposti col nullaosta della Questura. Ogni striscione che viene appeso è un colpo alla battaglia, non solo ideologica, che altre tifoserie stanno portando avanti contro queste norme. Purtroppo riuscire ad arrivare ad un’unità di intenti tra le varie curve italiane è difficilissimo, troppe le differenze, troppa la politica che serpeggia sugli spalti, troppi di conseguenza gli interessi che vi sono dietro. Il rischio concreto è che chi si oppone rimanga sempre più isolato e che, per non rischiare di sparire, si debba accodare e cedere come gli altri. Ieri il ministro dell’interno Maroni ha ribadito che tutte le norme del pacchetto anti-violenza (dal divieto di trasferta a quello sugli striscioni) «continueranno fino al termine del campionato: sono severe ma funzionano, perché tornare indietro?». Chi ama il calcio e il tifo rumoroso, colorato e goliardico, può solo augurarsi che baluardi di resistenza come gli ultras doriani ma anche quelli di Lecce, Reggio Calabria, Bergamo e Parma, non si arrendano a chi li vuole muti e sprofondati in poltrona davanti alla pay-tv.
Una limitazione assurda che, emanata dall’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive sull’onda emotiva della morte dell’ispettore Raciti, non ha altro effetto che minare la cultura popolare del tifo. Niente più tamburi, fumogeni, megafoni, striscioni, niente più coreografie se non preventivamente approvate. Tutti seduti a mangiare pop corn e vedere le ragazze pon pon che fanno i loro stacchetti, un po’ come avviene in America. E’ questo quello che temono i tifosi. Non solo gli ultras, come si cerca di far credere. «Oggi c’erano anche anziani e federclub in corteo – continua Carlo – non solo noi ultras, brutti, sporchi e cattivi. E’ un problema sentito da tutti, perché sono divieti assolutamente incomprensibili, che non mirano a limitare la violenza, obiettivo che personalmente condivido in pieno, ma a disgregare i gruppi di tifosi, annientando il loro modo di essere e il loro modo di tifare». Viene spontaneo chiedersi allora perché fare un corteo a distanza di più di un anno dall’emanazione di questa delibera del marzo 2007: «parlo a titolo personale – prosegue Carlo – ma credo che sia dovuto al fatto che pur avendo portato avanti con coerenza questa battaglia per una anno, non esponendo striscioni, rimanendo fuori dallo stadio per protesta e via dicendo, ci si è resi conto che ormai, a livello di tifoserie, si è rimasti quasi da soli a combattere questa battaglia. Per cui bisognava alzare la testa e un corteo colorato e partecipato è il modo migliore per farlo».
Sul rifiuto delle più anti-democratiche tra le norme anti-violenza, il fronte delle tifoserie italiane ha ceduto già da tempo. Si contano sulle dita di una mano quelle che si ostinano a non portare all’interno degli stadi i loro striscioni. Quasi tutte sono scese a compromessi con l’Osservatorio, presentando regolari richieste d’autorizzazione per far entrare i loro drappi. Da Firenze a Milano, da Torino a Roma, sono sempre di più gli striscioni che vengono esposti col nullaosta della Questura. Ogni striscione che viene appeso è un colpo alla battaglia, non solo ideologica, che altre tifoserie stanno portando avanti contro queste norme. Purtroppo riuscire ad arrivare ad un’unità di intenti tra le varie curve italiane è difficilissimo, troppe le differenze, troppa la politica che serpeggia sugli spalti, troppi di conseguenza gli interessi che vi sono dietro. Il rischio concreto è che chi si oppone rimanga sempre più isolato e che, per non rischiare di sparire, si debba accodare e cedere come gli altri. Ieri il ministro dell’interno Maroni ha ribadito che tutte le norme del pacchetto anti-violenza (dal divieto di trasferta a quello sugli striscioni) «continueranno fino al termine del campionato: sono severe ma funzionano, perché tornare indietro?». Chi ama il calcio e il tifo rumoroso, colorato e goliardico, può solo augurarsi che baluardi di resistenza come gli ultras doriani ma anche quelli di Lecce, Reggio Calabria, Bergamo e Parma, non si arrendano a chi li vuole muti e sprofondati in poltrona davanti alla pay-tv.
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